Educazione = momento permanente di strutturazione (autostrutturazione) della società.
Educazione = momento permanente di trasformazione (autogenerazione) della società.
L’educazione non è propedeutica alla vita associata. Come momento permanente di essa, non è unidirezionale (dall’educatore all’educando) ma statuisce rapporti multilaterali, di cui ogni termine è al tempo stesso emittente e ricevente. E i messaggi prodotti non solo assicurano gli scambi comunicativi caratteristici del momento educazionale, ma garantiscono anche la coesione interna e la coerente evoluzione del sistema sociale. Non quindi trasmissione a senso unico da chi sa a chi non sa, ma circolazione di dati informativi di varia natura, tutti però ugualmente necessari all’articolazione interna del discorso comune. Il momento educazionale è costituente essenziale di ogni e qualsiasi sistema. Forse il principale. La società umana è probabilmente strutturata in funzione del suo momento educazionale ben più di quanto non sia viceversa.
Il momento educazionale è permanente non solo nel senso che una parte della società vi è costantemente impegnata, ma piuttosto nel senso che tutti i suoi componenti lo sono; ancor più, che ne è partecipe la quasi totalità dei comportamenti sociali. La fase educazionale si estende infatti a tutta intera la vita del singolo e della collettività. Le compete una funzione agglutinante, la stessa che spetta ai circuiti e ai sistemi comunicativi (linguaggi, convenzioni, rituali): la maggior parte dei messaggi umani ha infatti una componente educazionale. La società educa se stessa; l’educazione è il motore della sua evoluzione. Nel processo educativo l’educando è il portatore dell’energia necessaria a modificare il sistema, a farlo ‘progredire’, mentre all’educatore è assegnata la funzione di fissare quell’energia e renderla utilizzabile all’interno delle strutture attuali del sistema. Solo che non è sempre chiaro chi sia l’educatore e chi l’educando, cosicché è forse più utile parlare di funzioni (variamente distribuite) anziché di personaggi.
Alcune conseguenze della proposizione: educazione = momento permanente di autostrutturazione sociale.
a) Le strutture necessarie all’educazione non costituiscono per la società una spesa ma un investimento. E non nel senso che servono a preparare le forze di lavoro e di produzione, cioè la ricchezza del domani, bensì in quanto sono esse stesse strutture portanti della società, punti di aggancio per una delle funzioni che la definiscono. Investimento che non ‘rende’ cioè non produce altro capitale, non è ‘inquinante’ secondo le vedute ecologiche attuali; è quindi di gran lunga da preferirsi ad altri investimenti, redditizi a breve e medio termine, disastrosi per sé e per la società in prospettiva di appena qualche decennio. Lo stop imposto dalla bomba H alla guerra totale, cui inevitabilmente seguirà una contrazione di volume delle guerre particolari, ha praticamente chiuso una grossa voce di uscita nel bilancio della società umana, causando uno squilibrio di funzioni che potrebbe portarla al fallimento (cioè all’autoestinzione), se dovessero mancare negli uomini (singolarmente e collettivamente) coscienza dell’attualità e volontà equilibratrice. Il riconoscimento della funzione socialmente autostrutturante dell’educazione −che in futuro potrebbe addirittura riassorbire le funzioni (anch’esse autostrutturanti) lasciate scoperte dallo stop alla guerra− è forse il fondamento di un nuovo discorso della società su se stessa, momento di riflessione cui potrebbe corrispondere un’effettiva ‘maturazione’, cioè l’adeguamento della società alle mutate condizioni dell’ecosistema uomo-terra. Ed è questa l’unica, effettiva forma di ‘progresso’.
b) Il rapporto educazionale è fondato assai più su corrispondenze multilaterali, su reciprocità di rapporti, che non su flussi informativi unidirezionali. L’esempio classico dell’insegnamento di scuola, che trasmette all’allievo quelle conoscenze che la società (degli adulti, cioè degli arrivati; ma è questa tutta la società?) ritiene indispensabili all’integrazione dell’individuo, anche questo esempio non fa eccezione, anzi è particolarmente probante. Infatti proprio attraverso la scuola (anche se non solo attraverso di essa) la società stabilita riceve precoci informazioni sui mutamenti in atto o imminenti. L’insegnante, più o meno consapevolmente, registra e comunica alle superiori istanze il grado di accoglimento che la giovane generazione riserba al sapere tradizionale, in altre parole l’attualità e il ‘valore’ di questo sapere. Sulla base di tali informazioni e ancora attraverso l’istituto scolastico la società stabilita può cosí eliminare all’origine eventuali ‘mutazioni’ culturali non controllabili per mezzo dei normali meccanismi di autoregolazione omeostatica. D’altro canto una società che volesse aprirsi ai processi trasformazionali non potrebbe che interrogare proprio la scuola (anche se non solo essa) sull’incidenza dei messaggi tradizionali nel tessuto sociale in formazione, sull’eventuale insorgenza di una diversa ‘domanda’ culturale, ovvero di nuovi orientamenti interpretativi, nuove letture di ciò che sembrava univocamente definito. In particolare l’insegnante, colui che trasmette l’informazione relativa alle strutture e alle trasformazioni storiche della società, riceve e, se cosciente della sua funzione, deve a sua volta interpretare il riflesso di tale messaggio, ricco per lui (e per la società) di nuova informazione, non meno di quanto l’originale lo era stato per il cosiddetto allievo.
c) Come il momento educazionale, cosí anche la musica è un fattore strutturante della società, talché l’insegnamento della musica lo è per cosí dire al quadrato. (Il caso è tuttavia del tutto generale, giacché quasi sempre i contenuti educazionali sono a loro volta modi di strutturazione della società - tecnologici, linguistici, metalinguistici ecc.). La trasmissione e la ricerca di modi di strutturazione sono per l’uomo attività tipicamente morfogenetiche (autogenerative). La società umana vive in quanto si trasforma, trasforma cioè quell’insieme di modi trasformazionali che è la vita. Cosí considerato, l’insegnamento della musica (come di ogni altra forma strutturante − non esornativa) appare essenziale alla società e inseparabile dalla sua evoluzione. Ciò significa da un lato che nessuna società, di fatto, ne è priva (neppure la nostra italiana, dove peraltro la educazione musicale è in massima parte affidata all’industria del consumo, è cioè associata a un momento regressivo); dall’altro che attraverso l’insegnamento della musica si può direttamente influire sulla configurazione sociale del domani, si può svolgere cioè un’azione eminentemente politica. Di qui la necessità che l’insegnamento della musica sia continuamente aggiornato (politicamente aggiornato), tenga conto dei problemi e delle eventuali provvisorie soluzioni quali si ricavano giorno per giorno dagli studi di antropologia, sociologia, pedagogia, dalle teorizzazioni semiologiche, comunicazionali, dalle sperimentazioni di nuove fonti sonore, di nuovi comportamenti musicali ecc. Il che determina l’ulteriore necessità di creare dei centri di ricerca e di coordinamento interdisciplinare, nonché degli organi adeguati di informazione e diffusione (riviste, bollettini, pubblicazioni varie). Inoltre, la necessità di organizzare dei gruppi di lavoro in questo senso, ma, prima ancora, di creare le condizioni di informazione e di interesse perché aumenti il numero dei ‘competenti’...
d) In quanto fattore strutturante della società, la musica è anzitutto scambio d’informazione tra parti di essa (individui, gruppi, culture). Il caso limite della cultura d’Occidente, dove l’informazione sembra procedere unidirezionalmente dallo specialista produttore di musica (l’esecutore, il compositore, in breve il musicista) al generico ascoltatore (ma esiste anche l’ascoltatore specializzato), in realtà non fa eccezione, giacché proprio dall’ascoltatore (specializzato o no) il musicista riceve le informazioni indispensabili all’orientamento della sua attività. Mentre tuttavia in altre civiltà non esiste o è molto meno pronunciata la conduzione specialistica della musica e anche al suo interno la divisione del lavoro (compositore, esecutore, con tutte le possibili sottocategorie, musicologo ecc.) è ben poco avvertibile, in Occidente la particolarissima funzione che la musica ha assunto nel contesto sociale (funzione prevalentemente estetica) fa si che gli scambi di informazione musicale avvengano per lo più attraverso canali unidirezionali, obbligati e facilmente controllabili. Uno di questi canali è appunto l’insegnamento della musica, che ovvie ragioni di conservazione politica tenderebbero a limitare alla trasmissione, da una generazione all’altra, di valori culturali riconosciuti, quindi anche dei presupposti semiologici (tecnici) che ne hanno permesso il riconoscimento. All’attività ‘tradizionale’ di tutto il gruppo (per esempio di una comunità tribale) si sostituisce da noi l’elargizione controllata degli interessi di un ‘patrimonio’ dichiarato tradizionale dal gruppo al potere, ma non necessariamente avvertito come tale dall’intera società. La conservazione, anzi l’accrescimento nel tempo, di questo patrimonio rafforza il potere in quanto gli subordina sempre più larghi strati sociali; non può quindi non essere al sommo dei suoi interessi, come del resto la politica della scuola ampiamente dimostra, e non solo nell’Occidente capitalista − si veda per esempio l’insegnamento della musica in Ungheria, indirizzato verso la formazione di una coscienza musicalmente tranquilla, in perfetto disaccordo con il mondo. Il potere gestisce quindi la musica accreditando l’opinione che i canali attraverso cui passa l’informazione musicale siano a senso unico (anche l’insegnamento della musica consisterebbe nel travaso di nozioni da chi le possiede a chi si ritiene necessario le acquisisca), esercitando tuttavia il suo controllo proprio in forza dell’informazione di ritorno. Una corretta circolazione dell’informazione musicale a livello pedagogico-didattico è quindi omologa a un’esplicita azione politica di smascheramento del potere. L’insegnamento corretto della musica è cioè esercizio e formazione di coscienza politica. Ma quale può dirsi un insegnamento corretto della musica? Un insegnamento che renda gli allievi coscienti e partecipi della situazione della musica nell’attualità. Coscienti e partecipi non solo come ricettori di messaggi, di comunicazioni culturali emesse dagli ‘specialisti’, non solo cioè come ascoltatori di musica, magari di avanguardia, ma anche e soprattutto come agenti di trasformazione dei messaggi, quando non produttori essi stessi di informazione musicale, quindi centri di strutturazione della società attraverso la musica. (Più volte, in passato, l’insegnamento della musica era stato di questo tipo, stimolatore di attività assai più che di ricettività, un’attività, s’intende, qualificata dalla società entro cui si svolgeva, rafforzatrice quindi delle sue strutture non meno che dei suoi privilegi). Ma un’attività musicale calata nella crisi dell’oggi e non, come negli anni della Gebrauchskunst, elusiva dei suoi maggiori problemi linguistico-comunicazionali, una tale attività non può prescindere dalla sperimentazione di modi autogenerativi di comunicazione musicale. Insegnamento sperimentale, quindi, nel duplice senso, soggettivo e oggettivo, dell’attributo; ma soprattutto sperimentazione della musica come politica, come momento strutturante della società.
e) L’analisi sociologico-culturale −come del resto anche altri approcci analitici, per esempio quello psicologico− ha come oggetto il rapporto tra le strutture semiologiche prodotte dalla società (o da alcuni suoi membri) e quella parte di esse mediamente utilizzata sia dal singolo che dalla collettività. In altre parole, non solo occorre analizzare il messaggio alla partenza (cosa relativamente facile là dove esistono documenti scritti) e all’arrivo (cosa assai più difficile, data, per la maggior parte degli individui, l’impossibilità di descriverlo compiutamente), ma anche le caratteristiche dei canali di trasmissione nonché la perdita o alterazione d’informazione ad essi imputabile. È anche necessario operare tutta una serie di distinzioni tra i diversi canali, alcuni dei quali (per esempio quelli neurofisiologici) largamente indipendenti (o almeno cosí sembra) da fatti sociologico-culturali, altri invece strettamente dipendenti da questi. Una corretta impostazione del discorso musica/politica ha quindi come presupposto un lavoro analitico oggi ancora in gran parte da fare. Del pari il discorso pedagogico-educazionale sulla musica, ovviamente connesso a quello politico (o forse coincidente con esso), deve concedersi un ampio margine di organica e documentata sperimentazione, giacché qui più che mai le ipotesi avanzate in sede teorica richiedono un’immediata verifica in situazione, se non altro per potersi modificare al passo con i mutamenti di quest’ultima. La linguistica, applicata a un organismo semiológico cosí complesso come la musica, è infatti una disciplina ancora troppo empirica perché si possa solo pensare, allo stato attuale delle conoscenze sulla trasmissione di informazioni ‘culturali’, di elaborarne autonomamente una teoria appena soddisfacente. A parte le evidenti difficoltà di natura sistematica, sono ancora troppo scarsi e scarsamente indagati i dati a disposizione, cosicché l’attività sperimentale, oltre ad avere funzione autostrutturante nei confronti del complesso semiológico ‘musica’, dovrebbe avere anche quella, conoscitiva in prima istanza, di fornire i dati necessari a una programmazione politica dell’esperienza musicale.
Inquisizioni Musicali II - Boris Porena [1975] - Testi di inessenzialità
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