Una musica che ostenta contenuti rivoluzionari non è per ciò stesso utilizzabile ai fini della rivoluzione.
La parola stessa «rivoluzione» si lascia comodamente inserire nei circuiti discorsivi monopolizzati dal potere (dalla bocca di un insospettabile ambasciatore ho recentemente colto, in trenta secondi di pubblico discorso, otto volte la suddetta parola con i suoi derivati).
Le questioni riguardanti i contenuti, ma compatibili coti le strutture semiologiche controllate dal potere, vengono da questo accolte e discusse o addirittura sollecitate allo scopo di incanalare la contestazione nel sicuro alveo delle richieste tangibili. Sistematicamente eluse sono invece le questioni riguardanti appunto quelle strutture.
La struttura semiologica del potere non si lascia per contro definire in base ad altro cui rimanderebbe (in base a un suo ipotetico ‘significato’). Le modificazioni di contenuto non lo intaccano. Pertanto le rivoluzioni di ‘contenuto’ sono pseudorivoluzioni. Tutti i contenuti sono strumentalizzabili dal potere, non però gli itinerari mentali che lo contraddicono.
Anche le strutture musicali non si lasciano definire (o si lasciano definire solo in parte) in base all’altro da sé. Il rimando a eventuali contenuti non è essenziale. La musica è, nei suoi rapporti con il significato, omologa al potere. La musica può quindi opporsi al potere senza far ricorso ai contenuti. Per esempio proponendo altri modelli strutturali. Meglio, inducendo comportamenti incompatibili con le strutture del potere.
Immune dall’ipoteca del contenuto, la musica può farsi essa stessa rivoluzione.
Inquisizioni Musicali II - Boris Porena [1975] - Testi di inessenzialità
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